Dalla prefazione alla prima edizione (2010) del dottor Roberto Basso
Questo nuovo libro di Pierfranco Romero colpisce per la capacità dimostrata dal suo autore nell’affrontare argomenti storici attraverso accostamenti di epoche diverse; l’interesse per la “sua” Rondinaria, che nasce in lui con quanto appreso dai racconti dei nonni e dall’inquietudine originata dall’osservazione delle “Torrazze” in un’ormai lontana giornata piovosa (una sensazione molto simile a quella provata da me quando avevo visto per la prima volta, con mio padre vicino, questi ruderi) è fortemente motivato dalla passione per i nostri luoghi, dalla volontà di conoscerne le vicende storiche e dall’avvertire l’importanza di elementi che, proprio perché appartenenti a epoche diverse, concorrono ad una visuale più ampia. Non a caso queste considerazioni trovano conferma nell’importanza che l’autore attribuisce all’incontro con il Professor Geo Pistarino: «…sapendo delle sue conoscenze storiche gli parlai di Rondinaria e delle mie ipotesi. Non scartò l’esistenza della città…», mentre è spiegato benissimo, nella sua negatività, l’atteggiamento del docente che aveva stroncato la domanda di Pierfranco, motivata da un interesse che non si sarebbe mai spento. La passione dell’autore per il territorio è poi testimoniata dal modo in cui parla delle sue origini geologiche, mentre il ricorso alle vicende delle alluvioni ha il duplice effetto di concorrere al sostegno delle sue tesi sul vecchio castrum Romano e anche di non far dimenticare i disastri causati dal cedimento della diga di Olbicella e dalle alluvioni più recenti: è significativo che uno dei simboli più noti di Silvano d’Orba, la “Pietra grossa”, con la bellissima fotografia scattata da Dominick Motta nel 1953, diventi anche una sorta di “indicatore” degli sconvolgimenti apportati dalle alluvioni stesse. Altri esempi interessanti sono rappresentati dai piccoli ed occasionali ritrovamenti di oggetti delle epoche antiche e dal ritorno alla luce dei resti di un ponte romano sull’Orba con l’inondazione seguita al già citato evento (1935) della diga, mentre un dettaglio come l’episodio del pesante rullo – utilizzato per la manutenzione dei campi da tennis – trasportato da Silvano a Predosa dall’Orba testimonia la potenza di un torrente in piena…oltre a ricordarci i trascorsi tennistici dell’autore.
Con lo stesso criterio si può commentare anche l’analisi del tracciato delle strade consolari, che porta a considerare in modo molto acuto il “quadrilatero di Rondinaria”; da questi punti della pubblicazione ci si rende ancora una volta conto di quanto sia attuale la configurazione dei percorsi realizzata dai Romani, come avviene per esempio con il completamento del tracciato tra l’attuale Tortona, il Monferrato, la Riviera ligure e la Francia meridionale. Per estendere questa analisi alle importanti conseguenze su un piano storico più generale si può pensare a quanto ricordato da Dario G. Martini e Divo Gori sul consolidamento di Genova come potenza marinara in relazione a quanto implicava questa rete di collegamenti: «Genova rimase quasi isolata e gradualmente finì per assumere una posizione di secondo piano, non solo rispetto a Dertona, ma anche nei confronti di altre città poste sul percorso della Via Iulia Augusta, come Acqui, Vado, Albenga e Ventimiglia… Tracciando vie che non la comprendevano nel loro itinerario Roma offrì inconsapevolmente a Genova un’occasione di più per ricordare che la sua sorte avrebbe dovuto essere affidata alle strade del mare».[1] È d’altra parte importante quanto ricordato da Manuela Condor nel suo libro sulla romanizzazione della Val d’Orba[2] nel considerare «come la penetrazione romana avvenga sfruttando percorsi preesistenti; solo in un secondo momento le vie romane vengono “fondate”» e che nel 1947, in merito alle “Torrazze” il Professor Teofilo Ossian De Negri «sosteneva che il castrum fosse di età bizantina e che fosse stato costruito dove in precedenza esisteva un centro romano, forse un pagus».
La lettura di questo libro risulta piacevole, agevolata dall’immediatezza di quanto espresso dal suo autore e dal ricorso ad articoli giornalistici; non possono passare inosservate le due poesie in dialetto silvanese scritte da Sergio Basso e da Elio Robbiano, da considerare anch’esse come un incitamento ad approfondire le nostre conoscenze storiche sui nostri luoghi. Con la passione che l’autore riesce a trasmetterci persino il percorrere in automobile il ponte tra Silvano e Roccagrimalda diventa occasione per ripensare a Rondinaria, così come il salire sulle alture silvanesi per osservare da lontano le “Torrazze”, la Valle dell’Orba e il territorio circostante.
Tutto questo implicherebbe la necessità di effettuare scavi archeologici; in questo senso credo che Pierfranco Romero interpreterebbe un ruolo come quello svolto da grandi archeologi quali il Prof. Nino Lamboglia, ricordato, in occasione della sua scomparsa, parlando di coloro «pronti a sostituire il raschietto dell’archeologo alla cieca forza degli scavatori… un’archeologia povera rispetto a quella dei ruderi monumentali, ma ricchissima di informazioni per chi sapeva far parlare i cocci, la terra».[3]
Questo libro è una risposta a tutti quelli come il docente che aveva azzittito il suo autore nel 1960: uno dei tanti tuoi meriti. Grazie, Pierfranco!
© Riproduzione riservata.
NOTE
[1] Dario G. Martini, Divo Gori, “La Liguria e la sua anima. Storia di Genova e dei Liguri”, E.C.I.G. – Genova, 1986.
[2] Manuela Condor, “La Romanizzazione della Val d’Orba: un territorio fra Liguri e Romani”, Le guide dell’Associazione “Alto Monferrato” – Ovada, 2005.
[3] Sergio Paglieri, da “Il Secolo XIX” – Genova, 12 Gennaio 1977.